DA ROMA ALLA TERZA ROMA
XXXV SEMINARIO INTERNAZIONALE DI STUDI
STORICI
Campidoglio, 21-22 aprile 2015
Documento introduttivo DEL XXXV
SEMINARIO*
Sommario: Roma. I. Dalla polis al populus Romanus. – I.1. Città greche e “Stati
territoriali”. – I.2.
Roma, una
“polis” diversa. – I.3.
Italia
e “provinciae”. – I.4.
Prospettive di ricerca: estensione dell’Italia ed estensione del regime
romano di proprietà delle terre. – I.5. Prospettive di ricerca: rapporto fra concessione
della “civitas” e creazione di nuovo “ager publicus”. – I.6. Prospettive di ricerca:
rapporto fra estensione dell’Impero romano e le idee stoiche di una Cosmopoli. – II. Imperium populi Romani e città (l’Età di Augusto). – II,1. Italia e province sotto Augusto. – II.2. Composizione fra mondo
latino e mondo greco sotto Augusto. – II,3. I peregrini provinciali si legano al “princeps”. – II.4. Fattori che favorirono
l’integrazione delle province.
– II.5. Dialogo culturale fra province ed Italia. – III. Cittadinanza e constitutio Antoniniana. – III.1.
Settimio Severo
e la fine della bipolarità “Italia – provinciae”. – III.2. Motivazioni contingenti per il nuovo assetto sotto
Settimio Severo. – III.3. La
“constitutio Antoniniana”: il riconoscimento di cambiamenti avvenuti. Essere
Italici o essere provinciali era un’antitesi che stava perdendo il suo
significato. –
III.4. Prospettive di ricerca: rapporto fra confische di
territori e risorse e sviluppo del modello urbano. – III.5. Prospettive di ricerca:
chi diventava “municipium” e chi no? Modalità dello sviluppo delle città. – III.6. Prospettive di ricerca:
ripercussioni della concessione della cittadinanza nel consolidamento delle
tradizioni culturali dei popoli.
– III.7. Prospettive di ricerca: inurbamento dell’esercito e altri fattori di consolidamento
delle città e delle loro tradizioni antiche. – III.8. Prospettive di ricerca:
rapporto fra autoritarismo e costituzione della cosmopoli. – IV. L’Età di
Costantino e l’Impero cristiano.
– IV.1.
Fiscalità e
città. –
IV.2. Romani e barbari.
– IV.3. Nuove idee
all’interno della cosmopoli dell’Impero romano. – IV.4. Dalla politica all’amministrazione. – IV.5. Un nuovo “populus”, quello cristiano, e un nuovo spazio:
il mondo. –
IV.6. L’organizzazione
territoriale del “populus” cristiano. – IV.7. Prospettive di ricerca:
dialettica fra poteri imperiali e autorità ecclesiastica.
Costantinopoli Nuova Roma. I. Impero universale
e popoli slavi. I.1. L’impero universale cristiano. – I.2. Universalità imperiale e signorie locali
dell’aristocrazia. – I.3. Assimilazione
al cristianesimo dei popoli slavi. – II. Secoli VII – VIII. – II.1.
Mutamento dei
ceti di governo fra VII e VIII secolo. – II.2. Militarizzazione dell’impero di
contro al califfato. – II.3. Ruolo
della marineria. – II.4. Difesa
del possesso fondiario medio e piccolo contro il latifondo. – III. Secoli IX-XIII. – III.1. Esercito
e agricoltura. –
III.2. Assolutismo
imperiale e ruolo degli eunuchi. – III.3. Prevalenza
dell’aristocrazia militare. – III.4. Fine politica e sopravvivenza culturale.
Mosca
Terza Roma. I. Il processo di unificazione della terra russa. – II. Ivan IV
e la terra. – III. Zemskie
Sobory. – IV. Permanenza
dell’idea imperiale romana.
Nel mondo greco
si concepivano tre categorie di organizzazioni sociali e territoriali: la polis col suo territorio (chora), l’ethnos cioè un insieme di comunità di un territorio che
riconoscevano dei capi, elettivi o meno, e la basileia, la monarchia con il suo territorio. I cosiddetti Stati
territoriali coincidevano con le monarchie, come quella macedone, per non
parlare di quelle lidia e persiana. La polis
aveva tradizionalmente un territorio piccolo e poteva ingrandirsi attraverso la
deduzione di colonie, che costituivano nuove città indipendenti. Il primo caso
di Stato territoriale che facesse capo ad una città greca fu quello di
Siracusa, ma sotto la guida dei tiranni del V e del IV secolo.
Per i Greci Roma era indiscutibilmente una polis, anche se molto particolare. Essi non diedero molta
importanza alla flessibilità dell’articolazione del corpo civico romano, che,
attraverso le tribù territoriali, era capace di estendere le dimensioni
territoriali e la numerosità della civitas.
I Greci notavano invece la capacità romana di integrare nuovi cittadini nel
corpo civico, specialmente nel caso degli schiavi liberati, che ottenevano la
cittadinanza. È nota l’ammirazione di Filippo V di Macedonia per questa
peculiarità romana nella capacità di integrare nuovi cittadini (iscrizione di
Larissa Syll. Inscr. Graec. II.543).
Ancora i tempi non erano maturi perché i Greci si accorgessero di un
altro punto di forza dei Romani, l’istituzione del municipium, che nei primi secoli dell’era repubblicana servì per
organizzare i rapporti fra Roma e le poche città, essenzialmente latine, cui
era stata concessa la cittadinanza romana. Ma fu negli anni 90-89 che
l’istituzione del municipium divenne
il punto nodale nella trasformazione dell’Italia in un’unica comunità sociale,
che aveva la cittadinanza romana e rispettava la legge romana, ma manteneva al
contempo la propria identità cittadina. Ogni città dell’Italia diventava un municipium Romanum ma ogni municipio era
anche la res publica di un populus, con responsabilità, doveri (munera) nella vita politica, sociale,
economica e militare della romanità.
I Romani erano famosi nel mondo antico per essere esperti nel diritto, e
venivano chiamati per avere arbitrati anche da comunità che ancora non erano
soggette al loro Impero. Il pensiero politico romano continuò ad elaborare
soluzioni sempre nuove, adattandosi al progredire dei successi militari delle
legioni. Le capacità di integrare i non Romani nella cittadinanza romana erano grandissime,
ma non miracolose, per cui i Romani affrontarono i problemi dell’estensione del
potere romano sulla Sicilia, la Sardegna, la Spagna, l’Africa, l’Asia Minore e
anche sull’Italia stessa, prima delle leggi del 90-89. I problemi ebbero due
soluzioni diverse, perché i popoli italici furono integrati nella civitas, mentre per i territori esterni
Roma si limitò ad estendere il controllo militare, fiscale e a creare una
suprema autorità giudiziaria attraverso la costituzione delle province.
In questo quadro storico lo sviluppo della ricerca può dare frutti
importanti. E’ importante la differenza fra il tipo di proprietà terriera a
Roma e poi nell’Italia romana e quello delle province. I Romani avevano due
fondamentali tipi di regime di proprietà: quello dell’ager publicus e quello dell’ager
privatus, retto secondo le norme del dominium
ex iure Quiritium. Dopo le riforme dei Gracchi si arrivò ad una drastica
riduzione dell’ager publicus, a
favore delle proprietà private della terra.
Un fattore di integrazione da approfondire è stato quello del rapporto
fra la concessione della cittadinanza agli stranieri, la creazione di colonie o
municipi in territorio provinciale, la creazione di nuove terre pubbliche
presso le nuove colonie o municipi e la loro trasformazione in proprietà
private. Questa dinamica, ad esempio, ha progressivamente trasformato la Gallia
Cisalpina, rendendola parte dell’Italia romana.
Anche l’evoluzione del pensiero politico romano in rapporto alla
filosofia greca è suscettibile di ulteriori progressi. In particolare,
l’apporto dello stoicismo può dare frutti importanti. Fu Posidonio a vedere in
Roma un fattore fondamentale di sviluppo nella vita delle città del bacino del
Mediterraneo, i prologhi della Storia di Diodoro Siculo ne sono testimonianza.
Egli capì che Roma stava creando una cosmopoli, in cui un solo diritto valeva
per tutti, anche se esso non cancellava i diritti preesistenti delle città e
dei popoli. Una “citt capace di comprendere l’intera umanità fu un’idea di
Posidonio, che derivava dallo sviluppo della politica romana. Le idee moderne
dei diritti dell’uomo furono allora precorse dalle idee greche e romane dei
doveri dell’uomo, e, prima di tutto, dell’uomo politico. Qui si costruì, o
meglio, si rese esplicita e articolata l’ossatura del pensiero morale al quale
molti uomini politici dell’Impero romano si ispirarono. In questo campo il
pensiero politico degli antichi si rivela superiore a quello dei moderni, che
hanno invece sviluppato la parte relativa ai diritti.
La creazione dell’Impero, ad opera di Augusto, non modificò profondamente
l’assetto dei rapporti fra cittadini romani e territorio, e nemmeno quello del
rapporto fra province e Italia. Anzi, l’Italia venne a costituire ancora di più
un’area di elezione all’interno dell’Impero, esente da guerre, prospera e
pacifica, mentre le guerre venivano dislocate lungo i confini sensibili
dell’Impero.
Augusto risolse la contrapposizione Oriente-Occidente, mondo latino-mondo
greco ellenistico, attraverso una composizione armonica, che veniva celebrata
nelle feste apollinee di Roma, in cui erano chiamati a cimentarsi artisti greci
contro artisti latini. Egli promosse anche il bilinguismo, al fine di creare
una profonda integrazione fra tutti i popoli.
Ma al tempo di Augusto i semi dell’integrazione delle province erano
gettati. L’Italia aveva giurato fedeltà al principe nella guerra contro
l’Egitto, ma ben presto molte comunità provinciali prestarono spontaneamente un
analogo giuramento, legandosi esplicitamente alla persona e alla famiglia
dell’imperatore. Così il fattore imperiale venne a costituire un fattore di
progressiva parificazione fra Italia e province. Se la repubblica aveva
distinto nettamente il regime vigente in Italia da quello vigente nelle
province, l’Impero progressivamente smussò e rese sempre meno significative le
differenze.
La fiscalità moderata permise alle province di diventare tanto ricche
quanto l’Italia e molte città provinciali, col tempo superarono in ricchezza,
cultura e decoro urbano la maggior parte delle città italiche. L’accrescimento
numerico di senatori provenienti dalle province contribuì, anch’esso,
all’integrazione delle molte comunità in un unico mondo politico e culturale.
La moltitudine di colonie, romane e talora latine, fondate nelle province,
costituì un fenomeno di integrazione simile a quello delle colonie nell’Italia
repubblicana nei confronti dei popoli italici.
La dialettica che contribuì a creare sempre più una sola città estesa
quanto tutto l’Impero è stata oggetto di molti studi, anche recenti, in ambito
storico-religioso. Ad esempio, i cosiddetti “culti orientali”, l’impatto
dell’Impero nel mondo delle province, la romanizzazione di culti provinciali
sono stati oggetti di attente analisi.
Un periodo di
svolta epocale fu anche quello dei Severi. Fu allora che l’Italia perse i suoi
privilegi, le province divennero più piccole, le città divennero più numerose,
e finalmente ottennero tutte la cittadinanza romana. Anche dal punto di vista
culturale, si arrivò ad una profonda integrazione, derivata da una migliore
conoscenza reciproca e da una sostanziale libertà di sviluppare le proprie
tradizioni culturali e religiose. Fu solo allora che il Cristianesimo divenne
un fenomeno archeologicamente tangibile e arrivò a destare interesse presso la
stessa corte imperiale.
I cambiamenti non
derivarono da scelte deliberate, ma da contingenze storiche. I pretoriani erano
fedeli a Didio Giuliano, che venne sconfitto da Settimio Severo nel 193, e
così, da allora, la guardia dell’imperatore non venne più scelta esclusivamente
in Italia, ma fra i migliori soldati di tutto l’Impero. La Gallia e la Britannia
avevano sostenuto Clodio Albino contro Severo, e così i senatori e i possidenti
che avevano sostenuto Albino furono epurati, se non anche messi a morte, e il
loro posto fu preso da senatori di origine in gran parte provinciale, con una
certa preferenza per gli africani e i siriani, vista l’origine dell’imperatore
e di sua moglie, la siriana Giulia Domna.
L’estensione
territoriale di molte province fu ridotta, e ridotto fu anche il numero di
soldati stanziati in ogni singola provincia. Per contro, le città divennero
molto più numerose di prima, perché Severo voleva avere rapporti con città, non
con popolazioni prive di Consigli cittadini. Fu allora che, per la prima volta,
Alessandria d’Egitto ebbe il suo Consiglio e i suoi magistrati civici. Colonie
e municipi divennero il doppio di prima nell’Africa romana. I territori delle
varie comunità dell’Impero vennero, in molti casi, ridisegnati e riqualificati.
Ad esempio, Cartagine divenne colonia di diritto italico, in cambio di una
perdita del suo territorio al fine di far nascere dei municipi nuovi.
Stando a Cassio
Dione, Caracalla concesse la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’Impero per
ottenere un maggiore gettito fiscale. È difficile credere che l’opera storica
del senatore Cassio Dione contenesse una palese menzogna, dettata solo
dall’odio verso Caracalla, mentre è più probabile che davvero la pressione
fiscale avesse raggiunto un notevole livellamento, per cui essere Romani o
essere provinciali non faceva una grandissima differenza, e semmai la
differenza era a vantaggio dei provinciali. La costituzione Antoniniana fu un provvedimento
che non suscitò scalpore, e nemmeno dibattiti, e non necessitò di
riaggiustamenti, com’era stato nel caso delle leggi del 90 e 89 a.C.
Probabilmente si trattò più del riconoscimento di uno stato di fatto, che di un
cambiamento repentino e netto.
Un fattore sarebbe
particolarmente degno di studio in questo ambito: che rapporto ci fu fra le
confische operate da Severo e, in misura minore, dai suoi successori, e lo
sviluppo del modello urbano e cittadino? Le confische andarono sempre e
unicamente a vantaggio del fisco imperiale (che era diventato indistinguibile
dalla res privata dell’imperatore),
ampliando il demanio imperiale? Oppure servirono anche allo sviluppo delle
città? E inoltre, in che modo il mantenimento delle province preservò i
tradizionali modi di proprietà della terra, anche quando la cittadinanza romana
fu estesa agli abitanti liberi dell’Impero?
Molte dialettiche
di primato e di dipendenza di città nei confronti delle città o delle comunità
vicine rimasero invariate, ma si strutturarono secondo la logica del diritto romano,
per cui certe comunità continuavano ad esercitare il loro potere politico su
altre, diventando sede e bacino esclusivo di origine di un Consiglio
municipale.
Il successo
politico e militare di Severo determinò anche la fine della tradizione
religiosa italica come unica tradizione di riferimento per la Romanità. Culti
siriani, culti giudaici, culti africani avevano la stessa dignità di quelli
dell’Urbe, e questo divenne ancora più vero quando Caracalla concesse la
cittadinanza a tutto l’Impero. Roma stava diventando un mosaico composito di
tradizioni culturali, che dialogavano fra loro, sotto l’egida di imperatori la
cui anima non era esclusivamente latina, ma armonizzava molte tradizioni.
Il folle imperatore
Eliogabalo volle creare a Roma, sul Palatino, un tempio del dio solare, in cui
fossero conservati gli oggetti e i testi sacri più importanti di tutte le tradizioni
religiose dell’Impero. Parimenti, una cinquantina di anni dopo, Aureliano fondò
il suo tempio del Sole in Campo Marzio, per farne il centro spirituale e
religioso dell’Impero, e un secolo e mezzo dopo l’imperatore Giuliano
l’Apostata pensava che il culto del Sole fosse il fattore unificante della
spiritualità del mondo romano imperiale, gerarchicamente superiore alle
tradizioni dei culti dei popoli e delle nazioni.
Fra i segni
premonitori della dignità imperiale di Severo uno viene menzionato dalla Historia Augusta, secondo il quale egli
avrebbe sognato di vedere dalla cima di un monte altissimo l’orbe della terra e
Roma, mentre le province suonavano un concerto con la lira, la voce e il
flauto.
Con i Severi le
tradizioni dei popoli vennero valorizzate ed ebbero nuova dignità; il loro
ancoramento alla terra divenne più forte di prima, anche se la mobilità sociale
e i commerci facevano spostare le persone liberamente in tutto l’Impero. Ma fu
allora che i militari persero il loro carattere transnazionale e poterono, in
una certa misura, sedentarizzarsi, legandosi a una specifica città, creando
quartieri per far risiedere le loro famiglie. Fu quando tutti divennero
cittadini romani che le comunità cittadine di moltissimi popoli riscoprirono le
loro tradizioni e le presentarono con orgoglio, come appare evidente dalla
monetazione delle province dall’epoca di Caracalla alla metà del III secolo. Le
città di Macedonia, ad esempio, proponevano la celebrazione di Alessandro
Magno, con l’appoggio di Caracalla, ma lo stesso facevano Tarso, Ascalona e
molte città delle province romane. Paradossalmente, diventare romani significò
valorizzare le proprie tradizioni civiche, che diventavano quelle di cittadini
romani.
Questi fenomeni
suscitano un importante interrogativo: quale fu il peso della sempre maggiore
accentrazione del potere nelle mani dell’imperatore? La perdita di capacità
decisionale da parte delle classi superiori, lamentata ancora da Tacito, fu la conditio sine qua non per la creazione
della cosmopoli?
L’accentrazione del
potere è l’unico modo per creare uguaglianza, integrazione fra i popoli, e
dialogo al posto della guerra?
La perdita di
potere da parte dei ceti emergenti andò di pari passo con la progressiva
riduzione della mobilità socio-economica verticale, che caratterizzò il IV
secolo: pian piano divenne sempre più difficile diventare homo novus, fare la scalata sociale grazie alle proprie capacità.
In questa dinamica
quale fu il ruolo delle città e quale quello della legislazione imperiale?
Il legame fra i
popoli e il territorio divenne ancora più forte a partire dall’epoca
tetrarchica. La fiscalità condizionò sempre più fortemente la vita delle città
e delle persone. Molti sono stati gli studi sull’impatto del nuovo sistema
fiscale tetrarchico e la progressiva crisi del modello della città; basti
menzionare quelli di Santo Mazzarino. Con l’epoca dei Severi le città avevano
assunto responsabilità in ambito fiscale, nel senso che i senatori cittadini
rispondevano in solido in caso di mancato pagamento delle imposte dovute. In
epoca tetrarchica il forte aggravamento della pressione fiscale coinvolse, in
modo assolutamente paritetico, province ed Italia, e rese l’appartenenza ad un
Consiglio municipale un gravame sempre più intollerabile. La riforma monetale
di Costantino aggravò la situazione, creando nuova ulteriore povertà, e
scoraggiando l’ascesa sociale ed economica delle persone, perché
l’arricchimento comportava l’ingresso in un Senato municipale e quindi un
carico fiscale maggiore.
I Senati
municipali, ma anche quello delle due maggiori Città dell’Impero, quello di
Roma e quello di Costantinopoli, non affrontavano le questioni politiche
generali: si trattava di amministrare le attività di routine e di pagare le tasse. Tuttavia, nei Concili provinciali, le
Città di ciascuna Provincia valutavano l’operato istituzionale dei rispettivi
Governatori, contro i quali potevano intentare giudizi. La normazione imperiale
dipendeva unicamente dall’imperatore tuttavia doveva misurarsi con la
consuetudine generale e le consuetudini locali.
I popoli erano
sempre più ancorati al territorio: i soldati ricevevano terre da coltivare,
divenendo contadini-soldati, e questi soldati potevano anche essere Germani
ammessi nell’Impero per militare nell’esercito.
La condizione delle
persone che lavoravano nei terreni e nelle proprietà di privati, in genere
senatori municipali, non differiva di molto da quella di coloro che lavoravano
nelle proprietà imperiali. Per garantire il pagamento delle imposte fu
stabilito che i contadini rimanessero vincolati alla terra dove lavoravano,
inaugurando la servitù della gleba.
Molti trovavano
preferibile fuggire presso i barbari piuttosto che rimanere nell’Impero romano.
Chi poteva si sottraeva alla partecipazione al Consiglio municipale, magari
approfittando dell’esenzione costantiniana dai munera per il clero.
Lo sviluppo e la
valorizzazione delle tradizioni cittadine o nazionali cessò, per dar luogo ad
una sempre più radicale contrapposizione fra paganesimo greco-romano e
Cristianesimo. Le persecuzioni del III secolo e dell’epoca di Diocleziano
avevano radicalizzato la dialettica fra le religioni, la quale invece si era
rivelata costruttiva al tempo dei Severi.
La cosmopoli che
Roma aveva creato permetteva la circolazione delle idee, e soprattutto
richiedeva un dibattito o almeno una riflessione sui valori che dovevano essere
condivisi da tutti gli abitanti dell’Impero-cosmopoli. Nel IV secolo la
riflessione si ridusse a due ambiti fondamentali: la natura del potere
imperiale e la necessità di dare un’unica religione a tutto l’Impero.
Le riforme del
potere imperiale inaugurate da Diocleziano rafforzarono quella che gli storici
moderni chiamano la trasformazione dell’Impero in dominato. L’imperatore era
chiamato dominus, che è il nome con
cui i servi chiamavano il loro
padrone. Per la vita politica dell’Impero diviene fondamentale il dibattito sui
fondamenti e le qualità del potere imperiale, dibattito promosso dagli
imperatori stessi, dai retori panegiristi e dal consistorium, il Consiglio supremo dell’Impero. Per il resto, una
miriade di funzionari imperiali, gerarchicamente organizzati, provvedeva ad
amministrare tutte le funzioni della vita pubblica. Si trattava, per dirla in
termini banali e anacronistici, di quello che ora viene detto
“commissariamento” della vita politica di una città.
Il mosaico di
popoli e di tradizioni stava perdendo i sui colori. Pochi ormai andavano
orgogliosi delle tradizioni e dei costumi della propria città.
Il fattore
emergente nella vita politica dell’Impero era il Cristianesimo. I Cristiani
definivano se stessi populus, con un
termine di antica tradizione romana. Al populus
cristiano spesso veniva contrapposto quello dei cosiddetti Graeci, cioè i pagani, come già essi erano stati definiti al tempo
dei Maccabei. Ma il populus cristiano
non si riconosceva (o non si riconosceva ancora) in una città. Roma era ancora
terribilmente pagana e il cristianissimo imperatore Costanzo II permise la
continuazione dei culti pagani presso i templi del territorio romano, come
eccezione, mentre suo padre Costantino aveva dovuto creare Costantinopoli per avere
una capitale prevalentemente cristiana. Ma il populus cristiano non si riconosceva come costantinopolitano. Anzi,
esso si estendeva anche presso i barbari, soprattutto i Germani, al di fuori
dell’Impero. Già al tempo di Costantino il populus
cristiano era percepito come un’entità sovranazionale (lo era stato fin
dalle origini, a differenza dal Giudaismo), e anche indipendente
dall’estensione dell’Impero romano stesso; e infatti il re di Persia prese a
perseguitare i Cristiani dopo che Costantino gli aveva mosso guerra. I
Cristiani residenti in Persia erano sentiti come dei potenziali membri del populus che riconosceva Costantino come
capo.
Al tempo dei Severi
i Cristiani si dichiaravano fedeli sostenitori dell’imperatore e cittadini
romani, anche se in attesa di ricongiungersi col regno dei cieli. Nel IV secolo
invece si impose progressivamente l’idea che il populus cristiano riconosceva come autorità quella dei vescovi,
lasciando all’Impero l’amministrazione della fiscalità, della milizia e di gran
parte della giustizia.
In questo secolo
l’organizzazione delle Chiese locali si ispirò al sistema territoriale
amministrativo dell’Impero, per cui ogni vescovo ebbe una città col suo
territorio da amministrare, sia spiritualmente che materialmente, mentre il suo
territorio prese il nome dei raggruppamenti di province imperiali: diocesi; e
la funzione dei Patriarchi si ispirò, mutatis
mutandis, a quella dei prefetti del Pretorio.
Laddove si era verificata
una fuga dalle incombenze curiali da parte dei Senatori municipali, si era
parallelamente verificata una corsa alle cariche ecclesiastiche.
Il fenomeno
monastico rivestiva, da parte sua, significati differenti, a seconda delle aree
dell’Impero: in Siria molti monaci, per quanto isolati nei loro eremi,
diventavano il punto di riferimento della vita culturale, e talora anche
politica delle città di riferimento, ma in Egitto essi tendevano più
radicalmente alla vita distaccata dalla comunità di origine, e si trattava, nel
loro caso, di una fuga dal mondo cittadino verso una vita spirituale. Un loro
nuovo coinvolgimento, come gruppi di monaci, nella vita pubblica lo si ebbe al
tempo di Shenute (IV-V secolo).
Al posto della
molteplicità delle tradizioni religiose e culturali prevalse e poi fu imposta
da Graziano e Teodosio I una uniformizzazione in senso cristiano. L’Impero ebbe
una sola religione invece che molte. Già con Costanzo II si ebbe un distacco
fra le funzioni dell’imperatore e quelle dei vescovi nella conduzione della
vita religiosa del mondo romano. La scissione fu definitiva con Graziano, che
nel 367 rinunciò alla carica di Pontefice Massimo. La sovrapposizione e
coincidenza perfetta fra cariche pubbliche e competenze religiose che aveva
caratterizzato il mondo romano fino ad allora cedette il posto ad una
complementarietà fra potere che deriva dall’Impero e autorità ecclesiastiche.
Questa complementarietà, questa parziale sovrapposizione è ben degna di nuovi
studi. Molte ricerche, e proficue, sono state fatte in questo campo
relativamente al problema della povertà, ma anche in altri domini si potrebbe
analogamente continuare gli studi. Basterebbe, per fini empirici, prendere in
considerazione le funzioni dei poteri politici in termini romani: quello della
povertà corrisponde alla sfera del tribunato della plebe e della prefettura
dell’annona, ma ci sono anche il potere del censore, che determina lo status di ciascun cittadino e dunque la
sua ascesa sociale; il potere edilizio, che regolamenta gli spazi pubblici e il
mercato. Questi e altri poteri furono oggetto di negoziazioni e discussioni nel
tardo Impero fra vescovi e potere imperiale, e questi sono altrettanti ambiti
proficui di indagine.
[AttilIO
Mastrocinque]
L'ideologia della basileia, denominata anche in modo
equivalente monarchìa, la concezione del potere imperiale e il
culto del sovrano, divengono la matrice della forma di stato e società
nell’impero romano-orientale. Nel IV secolo la divinità del potere imperiale si
coniuga con la finalità di salvezza universale del cristianesimo e gli
imperatori, senza più pretender una divinità propria, si presentano come
investiti personalmente da Dio della loro missione trascendente di salvezza
della umanità.
La visione
trascendente del potere imperiale, metastoricamente proiettata in un programma
di salvezza universale, viene sfidata dalla contestazione dei ceti
aristocratici, in profonda evoluzione sotto la pressione della autocrazia e di
fatto gestori di un largo potere territoriale nell’ambito dei loro latifondi.
Dal punto di vista
culturale la sua ideologia imperiale universalistica, la capacità di
assimilazione al cristianesimo dei popoli slavi (Moravia nell’863), della
Bulgaria turco-slava (865) e della Rus’ kieviana (988) è un elemento tipizzante
degli “imperi” come vengono elaborati dalla politologia moderna.
La destrutturazione
territoriale produce un avvicendamento di ceti al governo. Il potere politico
si regge su un sistema di riscossioni fiscali su commerci e possessi fondiari,
e sulla espansione del patrimonio pubblico di terra, che consentono il
mantenimento di un esercito stanziale di circa 150.000 unità, retribuite in
denaro e in terre coltivabili, e su una burocrazia molto ramificata. Su tutto
il simbolo unificante dell’imperatore e del suo cerimoniale. La basileia ton Rhomaion è in compenso una
antesignana del sistema della monarchia assoluta.
L’età di Eraclio
(610-641), pur con i suoi successi militari contro Avari e Persiani, registra
la scomparsa delle nuove coniazioni in oro supplito dalla bella moneta d’argento
dell’esagramma nel 616. Le necessità finanziarie sono tali che il potere
autocratico si trova ad allungare le mani sui tesori delle chiese, compreso il
tesoro lateranense del papa di Roma, aprendo in età eracliana un contenzioso
che si approfondirà in età iconoclastica e porrà la radice dello scisma fra le
due chiese.
In questo contesto
di spirito di resistenza e di esaurimento di risorse pubbliche i ceti
artigianali e mercantili soprattutto connessi con l’arsenale di Costantinopoli,
vengono valorizzati in una decisa presa di posizione politica che culminerà
nella scelta marinara di Eraclio e di Costante II, pronti a trasferire il
baricentro dell’“impero” da Costantinopoli Nuova Roma, ritenuta indifendibile,
al nodo delle rotte mediterranee fra Cartagine e Siracusa che devono assicurare
il mantenimento dell’esercito. Niceforo I mediterà addirittura di stabilire un
regime “democratico” cioè di governo del popolo delle arti della città
imperiale, che aveva sostenuto lo sforzo economico e aveva fornito la flotta su
cui si basava la resistenza militare romano-orientale alla superpotenza del
califfato dilagante dalla Persia alla Spagna e deciso ad espugnare
Costantinopoli Nuova Roma.
Il riaccentramento
territoriale e la capacità di resistenza ed espansione militare di Leone III e
Costantino V suscitano un largo consenso verso una politica aggressiva di
asserzione della autocrazia contro gli accumuli di potere economico di chiese e
monasteri, in larga parte istituzioni signorili e di proprietà privata del
fondatore, condotta con i metodi del fiscalismo bizantino.
L’esercito,
l’agricoltura, di cui viene difesa la piccola e media proprietà contadina
specialmente dei militari dotati di terre pubbliche in cambio di servizio
militare, la struttura amministrativa dell’impero e la macchina ideologica
della corte e del potere imperiale consolidano l’impero del IX-X secolo e
permettono notevoli successi in ambito territoriale, come la riconquista di
Creta, la riconquista della Siria e di parte della Mesopotamia e la
sottomissione della Bulgaria. Fondamentale è il successo della
cristianizzazione dei popoli slavi, che conferisce all’impero romano-orientale
un prestigio e un significato storico che dura anche dopo la sua scomparsa
politica.
Il centralismo
imperiale si esprime con l’attenzione prestata al sistema fiscale e
all’ordinamento dell’esercito, ma anche tenendo a bada le pretese della
aristocrazia militare, talvolta dotata di truppe private, che viene messa in
concorrenza con uno speciale personale di corte, gli eunuchi, cui si affidano
importanti cariche civili e militari, classe di persone che sono affini ai
ministeriali del Sacro Romano Impero di Nazione Germanica, cioè persone slegate
dal contesto aristocratico e interamente dipendenti dall’imperatore: sono anzi
spesso schiavi di origine paflagone.
Ma con il prevalere
della aristocrazia militare nell’XI secolo con la dinastia dei Comneni si
verifica una espansione del sistema signorile nelle campagne e un indebolimento
del potere centrale proprio mentre Turchi da Oriente e Latini, cioè occidentali
da Occidente, aggrediscono in vario modo l’impero romano-orientale, che deve
ricorrere a truppe straniere compensate con risorse economiche del fisco.
La conquista della
IV Crociata e la conseguente formazione di un impero latino di Costantinopoli,
esaurito nella capitale entro il 1261 ma perdurante in periferia, Creta e le
isole ionie fino al XVIII secolo; la progressiva conquista prima selgiucchide poi
ottomana della Anatolia e anche della Tracia, provocarono la scomparsa
territoriale dell’impero, anche se la sua eredità ideale prese a emigrare verso
la Russia e anche se il prestigio del patriarcato ortodosso di Costantinopoli
rimase a lungo intatto.
[ANTONIO CARILE]
Il mandato
conferito a Ivan IV dal metropolita Makarij nel cerimoniale
d’incoronazione («convertirai alla vera fede tutte le genti barbare») rimane
però del tutto tendenziale e Ivan IV si rifiuterà di
unirsi ad una crociata contro la Sublime Porta (Possevino), ma la derivazione
romana ed ecumenica della legittimazione del Gran Principe di Mosca e Cari sarà riaffermata più volte nei documenti
ufficiali, fino alla lettera affidata da Aleskej Michajlovoc nel 1654 a Fèdor
Isakovic Baikov perché la consegnasse all’imperatore cinese
Shùnzhi, nella quale lo Car afferma:
«A Voi, Bugdykhan, è certamente noto che da tempi antichi regnano sui grandi e
famosi stati dell’Impero russo i Sovrani nostri antenati, discendenti dalla
stirpe del Cesare Augusto, sovrano di tutto il mondo, dal suo lontano parente
il grande principe Rjurik, [...] dal Sovrano e granduca Vladimir
Vsevolododič Manamach, colmato da altissimi onori già dai greci, fino al
Sovrano il nostro bisnonno degno di lode e beato antenato, il Sovrano e
granduca Ivan Vasil’evič, autocrate di tutta la Russia, e suo figlio,
nonno del Sovrano, beato antenato, il Sovrano e granduca Fëdor Ivanovič».
[Giovanni
Maniscalco Basile]
[Un
evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende
impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi
presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione “Memorie”
sono stati valutati “in chiaro” dal Comitato promotore del XXXVI Seminario
internazionale di studi storici “Da Roma alla Terza Roma” (organizzato dall’Unità di ricerca ‘Giorgio La Pira’ del CNR e dall’Istituto di Storia Russa dell’Accademia
delle Scienze di Russia, con la collaborazione della ‘Sapienza’ Università di Roma, sul tema: MIGRAZIONI, IMPERO E CITTÀ
DA ROMA A COSTANTINOPOLI A MOSCA) e dalla direzione di Diritto @ Storia]